“Un canto per voi”

– “Ecco un canto per l’occasione!” –

Quando le prime volte gli astanti non ancora edotti sentivano queste parole, si giravano estasiati, aspettando versetti delicati e torniti, frutto di mente fine e di intelletto avvezzo alla bellezza. Successivamente l’esperienza suggeriva che si trattasse di Vincenzo Monti.

Il Monti era prolifico come pochi. Aveva scritto per il Papa e per i Francesi, per i borghesi e per i nobili, per i familiari e per gli sconosciuti, per gli amici e per i nemici, per i reazionari e per i giacobini, per Napoleone e contro Basseville, per Dio e per Mammona, per Cesare e per Bruto, per Ottaviano e per Marc’Antonio, per il potere temporale e per quello spirituale, per il neoclassicismo e per il romanticismo, insomma, aveva scritto per così tante persone che, alla fine, tutti quanti l’avevano per un motivo o per un altro con lui. Vincenzo Monti, in un certo senso, stimolava fastidio più di un prurito anale, cosa che, tra l’altro, viste le scarse condizioni igieniche in genere di quei tempi, era piuttosto frequente, proprio come i componimenti del caro Monti.

Ciò che fino ai quaranta aveva salvato il nostro era il bell’aspetto di cui, nonostante tutto, cercava sempre di schermirsi. A parte questo, fu proprio il suo bell’aspetto a concedergli l’alloro migliore del suo palmares: Teresa Pikler, o Pickler, o Pichler, insomma, lei. Teresa, mezza romana e mezza tirolese, un accentaccio che ti raccomando, voce squillante e risata ancora più forte, alta, procace, assetata di soldi e di potere, aveva trovato nel marito la perfetta anima gemella: lui, infatti, non era per nulla da meno.

Quando si presentò accompagnato da figlia e consorte a villa Pindemonte per una giornata in campagna a casa del caro amico Ippolito, Monti era Istoriografo del Regno d’Italia, nominato direttamente da Napoleone Re d’Italia, Dittatore di Francia, Imperatore supremo della Galassia, Capocondominio di tutti i condomini compreso il vostro. Per questa ragione il caro vecchio Vincenzo, Romagnolo di nascita, Romano per convenienza, Milanese perché nella vita sarebbe bisognava esserlo almeno una volta, era stato ricoperto d’oro: 6000 zecchini l’anno, più premi di vario tipo e servitù a carico del neonato napoleonico regno. A villa Pindemonte quindi arrivarono due carrozze: una per l’intellettuale, la moglie e la figlia adolescente, l’altra per lo spropositato ego della coppia. Dentro e sopra di esso stavano sette portantini senegalesi,  quattro cocchieri italiani, un maestro di cerimonia savoiardo, tre governanti bavaresi, due pittori minori spagnoli, quattro guardie del corpo tunisine, un violinista arabo, un flautista ungherese, un tamburino tedesco e due gitani tuttofare che mettevano le pastoie ai cavalli, suonavano la tromba e il trombone, sapevano cucinare un magnifico gulatsch e, soprattutto, tenevano d’occhio i consorti, spiando anche, con la scusa, madre e figlia durante la toelettatura.

Sceso dalla carozza: – “Ippolito, carissimo Ippolito” –

– “Maestro Vincenzo, carissimo Maestro Vincenzo” – si fecero affettatissime riverenze.

– “Ti ricordi della mia amatissima Teresa?” – e come dimenticarselo, del resto, dato che la signora Pichler Monti era sempre alla ribalta per via dei suoi eccessi?

– “Certamente, caro Maestro. Donna Teresa, è un piacere riceverla nella mia umile dimora” –

– “Umile? Ammaz.. Volevo dire, se tutti fossimo così umili, caro maestro Pindemonte, questo mondo sarebbe ammantato di indicibile bellezza!” – Teresa Pichler Monti veniva da famiglia tutt’altro che di basso rango, ma, da quando era sposata con Monti, aveva talvolta dovuto patire periodi di ristrettezze economiche, momenti in cui puntualmente la signora Monti pativa problemi di salute che non gli consentivano di seguire il marito, salvo per l’esilio a Parigi, s’intende.

Finalmente espletati i lunghi convenevoli, conclusi con il regalo di una collezione di porcellane di Limoges per il té e la cioccolata – Pindemonte odiava la porcellana, che gli ricordava il detestato pitale – i signori entrarono dentro, scortati dal seguito di servitù delle due parti, con i fratelli di Marantonia a sorridere inebetiti alle bionde e pettorute governanti bavaresi dalle trecce bionde alla maniera tradizionale e lunghi vestiti di lino tinto azzurro cielo. Il pranzo fu epico e il Monti, noto per grugnire di tanto in tanto alla vista di cibi a lui particolarmente graditi, sembrava decisamente grufolare allegro all’arte culinaria di Marantonia, abile cuciniera di agnelli speziati. Per questo era bene da aspettarsi un suo componimento per l’occasione. E già Pindemonte pregustava un curioso divertissement letterario che un amico, in preda ai fumi di un liquore slovacco, gli aveva mostrato divertito.

Ippolito fece segno a Marantonia di avvicinarsi: – “Resta qui, Marantò. Ti faccio vedere come adesso li fo’ morir tutti i personaggi di Monti” – non capendo, lei si sedette appena dietro in attesa.

Monti, allora, con voce stentorea e pancia piena annunciò: – “Volevo declamare un componimento per l’occasione. Riproporrò per questo un’ode a me cara, quella al Signor de Montgolfier.” – si schiarì la voce, in attesa di risposta.

– “Prego, caro maestro, prego!” –

– “Quando Giason dal Pelio
Spinse nel mar gli abeti,
E primo corse a fendere
Co’ remi il seno a Teti;” –

– “E morì di puzzo ai piedi” –

– “Su l’alta poppa intrepido
Col fior del sangue acheo
Vide la Grecia ascendere
Il giovinetto Orfeo.” –

– “E morì come un babbeo” –

– “Stendea le dita eburnee
Sulla materna lira;
E al tracio suon chetavasi
De’ venti il fischio e l’ira.” –

– “E morì sopra una pira” –

“Meravigliando accorsero
Di Doride le figlie,
Nettuno ai verdi alipedi
Lasciò cader le briglie.” –

– “E morì di cocciniglie” –

– “Cantava il Vate odrisio
D’Argo la gloria intanto,
E dolce errar sentivasi
Sull’alme greche il canto.” –

 – “E morì di cuore affranto” –

– “O della Senna, ascoltami,
Novello Tifi invitto:
Vinse i portenti argolici
L’aereo tuo tragitto.” –

– “E moristi in olio fritto” –

– “Tentar del mare i vortici
Forse è sì gran pensiero,
Come occupar de’ fulmini
L’inviolato impero?” –

– “E morir poi sotto un pero” –

– “Deh! perché al nostro secolo
Non diè propizio il Fato
D’un altro Orfeo la cetera,
Se Montgolfier n’ha dato?” –

 – “E morì col seder violato” –

– “Maggior del prode Esonide
Surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
Al volator naviglio.” –

 – “E muori come coniglio” –

– “Non mai Natura, all’ordine
Delle sue leggi intesa,
Dalla potenza chimica
Soffrì più bella offesa.” –

– “E morì di chiappa lesa” –

– “Mirabil arte, ond’alzasi
Di Sthallio e Black la fama,
Pèra lo stolto cinico
Che frenesia ti chiama!” –

– “E muori a fil di lama” –

– “De’ corpi entro le viscere
Tu l’acre sguardo avventi,
E invan celarsi tentano
Gl’indocili elementi.” –

– “E muor di mal di denti” –

– “Dalle tenaci tenebre
La verità traesti,
E delle rauche ipotesi
Tregua al furor ponesti.” –

– “E moristi come Alcesti” –

– “Brillò Sofia più fulgida
Del tuo splendor vestita,
E le sorgenti apparvero,
Onde il creato ha vita.” –

– “E morirono per spada scita” –

– “L’igneo terribil aere,
Che dentro il suol profondo
Pasce i tremuoti, e i cardini
Fa vacillar del mondo,
Reso innocente or vedilo
Da’ marzii corpi uscire,
E già domato ed utile
Al domator servire.” –

– “E morì con bel nitrire” –

– “Per lui del pondo immemore,
Mirabil cosa! in alto
Va la materia, e insolito
Porta alle nubi assalto.” –

– “E morì facendo un salto” –

– “Il gran prodigio immobili
I riguardanti lassa,
E di terrore un palpito
In ogni cor trapassa.” –

– “E morì come oca grassa” –

– “Tace la terra, e suonano
Del ciel le vie deserte:
Stan mille volti pallidi,
E mille bocche aperte.” .-

– “E moriron le terga offerte” –

– “Sorge il diletto e l’estasi
In mezzo allo spavento,
E i piè mal fermi agognano
Ir dietro al guardo attento.” –

– “E moriron infin di stento” –

– “Pace e silenzio, o turbini:
Deh! non vi prenda sdegno
Se umane salme varcano
Delle tempeste il regno.” –

– “E muoion a colpi di legno” –

– “Rattien la neve, o Borea,
Che giù dal crin ti cola;
L’etra sereno e libero
Cedi a Robert che vola.” –

– “E morì sotto una mola” –

– “Non egli vien d’Orizia
A insidiar le voglie:
Costa rimorsi e lagrime
Tentar d’un Dio la moglie.” –

– “E morì di troppe doglie” – (qui ripensando al Fosco)

– “Mise Teséo nei talami
Dell’atro Dite il piede:
Punillo il Fato, e in Erebo
Fra ceppi eterni or siede.” –

– “E morì come Diomede” –

– “Ma già di Francia il Dedalo
Nel mar dell’aure è lunge:
Lieve lo porta Zeffiro,
El’occhio appena il giunge.” –

– “E morì ché l’ape punge” –

– “Fosco di là profondasi     (Dannato Fosco, ovunque sei!)
Il suol fuggente ai lumi,
E come larve appaiono
Città, foreste e fiumi.” –

– “E morì, vollero i Numi” –

– “Certo la vista orribile
L’alme agghiacciar dovria;
Ma di Robert nell’anima
Chiusa è al terror la via.” –

– “E morì di dissenteria” –

– “E già l’audace esempio
I più ritrosi acquista;
Già cento globi ascendono
Del cielo alla conquista.” –

– “E morì di Monti alla vista” –

“Umano ardir, pacifica
Filosofia sicura,
Qual forza mai, qual limite
Il tuo poter misura?” –

– “E morì per la calura” –

– “Rapisti al ciel le folgori,
Che debellate innante
Con tronche ali ti caddero,
E ti lambîr le piante.” –

– “E morì per man di fante” –

– “Frenò guidato il calcolo
Dal tuo pensiero ardito
Degli astri il moto e l’orbite,
L’olimpo e l’infinito.” –

– “E morì di callo al dito” –

– “Svelaro il volto incognito
Le più rimote stelle,
Ed appressâr le timide
Lor vergini fiammelle.” –

– “E moriron come animelle” –

– “Del Sole i rai dividere,
Pesar quest’aria òsasti;
La terra, il foco, il pelago,
Le fere e l’uom domasti.” –

– “E moristi dopo i pasti” –

– “Oggi a calcar le nuvole
Giunse la tua virtute,
E di natura stettero
Le leggi inerti e mute.” –

– “E moristi in manier brute” –

– “Che più ti resta? Infrangere
Anche alla morte il tèlo,
E della vita il nèttare
Libar con Giove in cielo.” –

– “E morir senza più un pelo” –

Marantonia si alzò dopo un composto applauso, dopo si avviò verso le cucine dove si udì un fragoroso scoppio di risa, che nessuno, salvo Pindemonte seppe spiegarsi.

– “Bizzarra la vostra serva, caro Ippolito” –

– “Meno di quello che pensate, Maestro, e poi è brava in tutti i servizi di casa” – automaticamente non pensò ai manicaretti e alla casa linda, ma alla sua carne, in cui ogni giorno affondava gustosamente.

– “E non è men che meno la sola a sembrar bizzarra” – aggiunse Donna Teresa.

– “A che vi riferite, Madama?” –

– “A quei vostri giovani negretti di bassa statura che vi curano il giardino in numero di sette” – Pindemonte non sapeva di cosa parlasse.

– “Prego?” –

– “Si, all’arrivo li abbiamo visti scaricare delle casse verso un certo luogo e ci sembraron spaventati alla nostra vista, tanto da nascondersi, ma non saprei più altro aggiungere” –

A Pindemonte raggelò il sangue, ma cercò di mantenere compostezza. Più tardi avrebbe chiamato Vincenzo, ordinandogli di ripulire al più presto gli schioppi.

– “Ma prego, non tediamoci oltre. C’è uno splendido sorbetto con neve delle Alpi che ci aspetta di là!” – Ippolito era scuro in volto. Qualcosa si stava abbattendo sulla villa e adesso capiva il perché della sua perdurante stitichezza.

Continua…

Risvegli

– “Quanto sei bella, Marantonia” – dal fondo del letto, il sesso inerte e stanco dell’attività, Pindemonte guardava Marantonia lavarsi con i piedi dentro la tinozza. Lei lo guardò con il solito sorriso. Marantonia si sentiva la regina della villa e non le importava che il suo uomo avesse i capelli quasi del tutto bianchi. Il modo in cui la toccava e la amava non erano comuni.

– “Eccellenza, voi lo dicete perché io ci faccio l’amore” – lasciò scorrere gli oli sul petto procace, poi giù fino al pelo folto del pube. Di tanto in tanto Pindemonte faceva fatica a seguire il suo italiano disarticolato. Le dedicò qualche verso dell’Odissea, balbettando la sua traduzione ancora imperfetta, mentre indugiava sulle singole parole e si chiedeva se quello fosse l’esito più pertinente. Dal mobile del letto prese un foglio di pergamena, dove annotava le sue idee e vi scrisse i suoi dubbi molto rapidamente e in pessima grafia. Senti delle gocce fredde ai piedi, poi alle gambe, infine un’intensa sensazione di calore in mezzo all’inguine. Marantonia sorrideva, mentre si prendeva cura dei bisogni del poeta.

– “Santissima Croce, Marantonia, non ti stanchi mai, benedetta figliuola” –

Lasciò appena per un attimo la presa: – “E a Vossìa ci piace. Continuasse a scrivere, ché poi perde l’idea e si arrabbia e non mangia” – Pindemonte pensava a tutto salvo che a scrivere in quel momento – “Gesummaria…” – disse a mezza voce e già si sentiva tutto ringalluzzito, per quanto la sua scrittura – già svogliata – adesso era stata definitivamente abbandonata per seguire i movimenti della donna. Era di nuovo nell’estasi dei sensi e si decise quindi a posare tutto quanto per non sporcare le lenzuola e se stesso di inchiostro. Nel farlo, però, ecco la tegola: il manoscritto del Fosco si trovava proprio sul comodino, insieme ad altri scritti, ma risaltò come se lo stesse osservando severo. Si sgonfiò come una zampogna e quella che doveva essere l’ennesima appendice del sano divertissement mattutino si trasformò ben presto in un floscio fastidio.

– “Non ci piaccio più a Vossignorìa?” – chiese Marantonia preoccupata – “c’ha troppi pensieri per la testa in questi giuorni. Ce lo dice a me che succede?” – si avvicinò e si stese accanto a lui, quasi materna. Era forse in quei momenti che sapeva di non essere solo la domestica per i suoi giochi erotici.

Pindemonte indugiò con lo sguardo nel vuoto: – “Ti insegnai a leggere, vero bella creatura?” –

– “Eccellenza, sì, Eccellenza” – e guardava incuriosita la pila di carte.

– “Ecco, tièn, leggi” – gli era uscito di nuovo quell’accento veronese delle preoccupazioni.

– “Santissima Rosaliuzza” – protestò a mezza bocca la domestica. Sapeva che quando gli riprendeva l’accento veronese erano solo dolori – “Mi donasse a leggere” – poi aggiunse – “A voce alta?” –

Pindemonte sbiancò. Non poteva sopportare di far riecheggiare ancora quei versi così nefasti per la sua stanza. Già li vedeva aleggiare come le Parche, e Lachesi in particolare, pronta a tagliare i fili del suo amaro destino. – “Giuda porco, possa morire se li risento di nuovo a voce alta in questa stanza!” –

Marantonia aguzzò lo sguardo. Talvolta doveva tornare indietro e rileggere alcuni versi per non perdere il filo del discorso, ma più andava avanti e più cercava di sforzarsi di capire: – “Parla di tabbuti” – si corresse – “di sepolture.” Pindemonte annuì – “E Vossìa non scrissi un’altra cosa la stessa sui tabbuti?” – implacabile logica femminile.

– “Si, Marantò, ma mica la dedico agli amici io, urco can boia maledeto, e poi… E poi quello che scrissi io è una cosa, ma questa ha tutt’altro accento!” – eppure dalla dissacrante schiettezza della sua amante si sentiva un po’ più rasserenato.

– “Ci andò di corpo oggi, Signorìa?” –

– “In verità  non ancora”

– “Sicuro è?” –

– “Sarò pure vecio, ma mica tonto!” –

– “E allora perché trovai impronte di fango stamattina quando mi arrisvegliai? Che ci venne, la malattia del sonno?” –

Non troppo convinto, Pindemonte guardò sotto il letto. Le sue scarpe e i suoi stivaletti erano tutti intonsi, puliti e laccati dei giorni prima. Eppure ancora restava una leggera macchia di fango giusto sotto il letto, una mezza orma, non di più: – “Vincenzo e Rosario non sono venuti, no?” – I fratelli di Marantonia si occupavano delle rimesse. Gente bonaria e di poche parole, passavano il tempo con gli altri tre domestici a sbrigare faccende al di fuori della casa. Raramente e solo per cose importanti sarebbero venuti a bussare a casa del padrone:

– “No, i fratelli miei oggi sono scesi in città per fare facende” – Pindemonte era inquieto. Che sia entrato qualche ladro? Ha forse dimenticato di pagare la servitù? Chi lo odia tanto da entrare nottetempo nella sua stanza ad osservarlo?

D’un tratto la risposta: e se la Morte stessa si fosse seduta al suo capezzale quella notte? Rabbrividì all’idea. Si alzò, completamente nudo, dal letto, le mani tra i capelli, ripetendo continuamente imprecazioni e lamenti, facendo su e giù per la stanza come un forsennato. Marantonia lo guardava incredula, ma sapeva che non era il caso di aggiungere o chiedere nient’altro.

– “Che fare? Che fare?” –

– “Eccellenza, che capitò?” –

– “Il Mietitore, Marantò, il Mietitore stanotte!” – lo guardava con occhi da pazzo.

– “Eccellenza, guardasse che il grano già lo cugliemmo” –

– “Ma che grano, Sant’Antonio da Padova, quello viene per me!” –

– “Non pagaste il mugnaio?” –

– “La Morte, il Tristo Mietitore, l’Omega, la Fine! Era qua al mio capezzale stanotte!” –

Marantonia si fece il segno della croce: – “Bedda Matri Santissima Mmaculata! E chi ce lo disse?” –

Esitò Pindemonte. Chi gliel’aveva detto? L’aveva sognato? Non ricordava di aver fatto sogni del genere. Si sedette sul letto: – “Sto invecchiando, ragazza mia. Ti dovrai prendere sempre più cura di questo vecchio” –

Ancora umida del bagno, la domestica si fece presso l’erudito: – “Lasciasse stare queste cose, Eccellenza. A farla ringiovanire ci penso io” – senza troppi fronzoli, riprese da dove aveva lasciato. Pindemonte non riuscì a proferire più parola.

Malgrado ciò, lo spettro della sua morte lo tormentava ancora.

Continua…

Kampuchea

Il problema con i Cambogiani è che sono Cambogiani.

Mi spiego: il punto è che i Cambogiani hanno una serie di difetti non da poco. Prima di tutto non parlano l’italiano, biascicano l’inglese e il fiammingo e orientalizzano il francese. Grave problema, poi, quando mischiano i tre idiomi con lo khmer, il vietnamita e il thai, versione settecentesca, cose che vi raccomando. Per farvi capire, immaginate di andare ad un ristorante e di chiedere il piatto del giorno. Il cuoco, un Cambogiano, vi porta un piatto di germogli di soia con tofu, porridge, wurstel e krauti. Vedete anche delle zampe di rana e vi assicuro che non sono morte. Quando obiettate che il piatto è un po’ indigesto, il cuoco non protesta: prende uno dei suoi affilatissimi coltelli e, con un gesto preciso quanto micidiale, vi taglia la mano sinistra, la prende ancora grondante di sangue e, non più vostra, la porta in cucina. Un gourmet, vi dico. Lui lo sapeva. Sapeva che parlare con i Cambogiani significava tenere gli occhi aperti, avere tanta pazienza e costringerli a parlare lentamente, parlando a sua volta lentamente. Un’operazione che snerverebbe un Dhalai Lama, figuriamoci un uomo della sua esperienza, della sua provenienza e con i suoi intenti. Damasco in primavera odora di spezie e gelsomino, di carni di agnello e di sangue di vacca. Lontano dal centro si alza il terribile sfiato degli orinatoi, della morte e dei sobborghi tutt’altro che dorati della città. Damasco è dolce e malata come una puttana.

Questo pensava, rimettendo gli occhiali sul naso per leggere al meglio un manoscritto in sanscrito utile alle sue ricerche. Doveva solo aspettare. Sarebbero arrivati tra non molto, il suo servitore indiano si sarebbe occupato di accoglierli e, se necessario, avrebbe fatto da tramite nella conversazione. Il tedesco del suo servitore era danzante e bizzarro come gli spettacoli che avevo visto a Madras non molto tempo fa, la cosa ormai non lo disturbava più. Erano passati 15 anni da quando l’aveva raccattato per quattro monete dal fondo macilento di una casupola del Kerala e l’aveva portato nel lusso dei palazzi di mezza Europa. Era un piacere vederlo adesso, per quanto il suo tedesco alle volte fischiasse un po’, come quando doveva dire “Ich sprachen Deutsch”, che diventava “Ich (fischio) sprashen Doich (fischio)”. Alle volte si chiedeva se veramente fosse Konrad – l’aveva chiamato così – a parlare il vero tedesco, mentre il suo accento, finemente tornito dalla dizione accademica, non fosse che una corruzione della lingua del popolo, anche quando non si tratti di un nativo della Renania, della Westfalia o della Baviera a parlare.

Con questi pensieri in testa, mangiò con lentezza il piatto di fave e agnello che gli servirono ossequiosi sguatteri con i baffi ancora sporchi di fumeria. Si chiedeva quanto restasse in tasca a quei disgraziati, data la miseria che guadagnavano. Fece per richiamarne uno. Gli filò due monete d’argento, una fortuna da quelle parti, e lo lasciò andare, senza che si perdesse in inutili e sgraditi ossequi. L’avrebbe rivisto più tardi, mezzo morto, steso sanguinante in uno dei vicoli più luridi della città. L’avevano derubato e preso a bastonate così forte che un paio di schegge gli si erano conficcate sul braccio. – “È la vita.” – si limitò a pensare – “Ad alcuni non è dato avere più di tanto.” – A parte questo, non si riteneva un uomo cattivo.

Ognuno di noi, nella sua visione, aveva in serbo più destini. Ogni scelta avrebbe chiuso una o più strade verso lunghe e ricche vite o morti tristi e drammatiche. Sì, mangiare il piccante agnello con le fave di quelle parti gli faceva decisamente quest’effetto. In camera si fece portare del vino liquoroso e una prostituta. La fece sedere, le spiegò con il suo arabo scolastico che non era lì per abusare di lei, ma che in caso avrebbe dovuto allietare gli ospiti che stavano per arrivare, se ciò fosse stato chiesto.

– “Come ti chiami?” – le chiese infine con durezza.

– “Tifa” – rispose lei per nulla intimorita. Doveva essere abituata a quel genere di comportamenti da parte degli uomini e i suoi occhi erano velati a nascondere ogni emozione.

– “Stai al tuo posto. E l’oro promesso sarà tuo ben presto.” – Guardò fuori dalla finestra: le prigioni, il Palazzo degli Azem, tutto era bello e spaventosamente fuori contesto rispetto alla povertà poco più lontano. Non era importante.

Konrad bussò rispettosamente. Dall’eccitazione non aspettò nemmeno che il padrone desse il benestare. Erano in 3, cosa che lo lasciò sorpreso. La sua reazione di rabbia, sebbene celata da anni di allenamenti sulla falsariga del galateo, sibilò soltanto:

– “Konrad, traduci per me.” – Fissando verosimilmente il capo. I Cambogiani. Alti come un tappo di sughero, la faccia nervosa e tirata, gli occhi leggermente a mandorla che su una donna avrebbero denotato al contrario immensa dolcezza.

– “Benvenuti, miei ospiti” – pausa – “Siete quindi solo in 3?” – Seguì il lento parlare di Konrad. Il suo hindi era seccato come un albero di arancio al freddo della Germania. Poteva azzeccare gli accenti induriti dalla pratica del tedesco.

– “Anche fossimo in 3, saremmo sempre abbastanza” – tradusse da un aspiratissimo hindi intriso di khmer. Aveva capito che il numero era quello promesso. Estrasse allora da un baule un ritratto appena ingiallito. – “Pindemonte. Verona” –

Continua…

L’affaire Pindemonte – Parte prima – o anche una parte a caso, tutto sommato –

Non che Pindemonte nella fattispecie fosse vecchio. Se dobbiamo dirla tutta, era un uomo che, per la sua età, si mostrava ancora abbastanza piacevole, con l’occhio languido dietro cui nascondere una voracità curiosa del mondo, indubbiamente sorpreso dalle cose di questo pianeta, su cui aveva per altro una teoria. Ma non è tempo di parlare di teoria.

Nel 1807 Pindemonte entrava appieno nel cinquantennio. Per un uomo di quel tempo cinquant’anni sono come aver vissuto mezza era geologica, aver visto l’uomo di Neanderthal e aver preso un caffè con Giulio Cesare, quindi, sì, effettivamente cinquant’anni, anche solo a sentirli nominare, facevano il loro bell’effetto. Pindemonte, nonostante tutto, non si sentiva vecchio. Marantonia non lo faceva mai sentire vecchio, del resto. E insomma, quanti possono dire di avere un’insaziabile trentenne alle proprie dipendenze che ogni mattina e, per qualche strano ghiribizzo, anche la sera si curi di farvi fare della sana attività sessuale, che tra l’altro sgrassa le coronarie e ti lascia il sorriso sul volto? Pindemonte, Ippolito, nato 1753, stava proprio bene e alla sua età, quando gli altri avevano problemi a pisciare per via dei calcoli e si grattavano incessantemente l’inguine a causa di incauti incontri con ballerine francesi dalle cosce ipnotiche, lui pisciava bene, non aveva speso un solo ducale a puttane e, cosa da non sottovalutare, andava di corpo che era un piacere. Signori, siamo chiari: a quel tempo si moriva per una febbre. Cacare con regolarità era una vera e propria manna dal cielo, se si pensa ai tisici ragazzetti che giravano nei palazzi signorili e borghesi dell’epoca.

A proposito di questo, urge qualche precisazione: non bisogna pensare che Pindemonte si interessasse di casse da morto per il semplice gusto del macabro o perché, durante il suo soggiorno palermitano, la Cripta dei Cappuccini gli suscitò orrore o ammirazione, nossignore. La Cripta dei Cappuccini per Ippolito Pindemonte, nato a Verona, fu la giusta sintesi di ciò che vedeva nei palazzi di tutta Italia ed Europa: bare ambulanti. Perché, signori miei, era tutto un tossicchiare, vomitare, sudare sudori freddi, lamentare reumatismi, sputare sangue, grattarsi di pulci che le parrucche e gli orripilanti cani da compagnia, incapaci ormai di camminare, essendo praticamente sempre in braccio alle matronali signore di una certa classe sociale, per così dire, “di capriccio”, passavano di qua e di là come in un circolo orgiastico, salvo che non ci si scambiasse piacevoli effusioni, ma ogni tipo di augurio di morte. La Cripta dei Cappuccini di Palermo era come un qualunque salotto buono, solo più silenzioso e sicuramente meno impestato, un buon luogo in cui riflettere e scrivere e, perché no, mandare anche qualche accidente ad una serie di palloni gonfiati che affollavano di parole stanche e sempre uguali le stanze ad ogni latitudine della parte del globo cosidetta occidentale.

Ora, sebbene, come dicevo, Ippolito, nato dalla nobile famiglia Pindemonte, che scriveva “La melanconia”, ma pensava a quanto fosse bello poter vagare per i campi, dove ci si poteva dare all’espletazione dei propri bisogni corporali – tutti quanti, nessun escluso – senza dover spremersi su pitali di porcellana che, per quanto finemente decorata, facevano piuttosto schifo anche solo a guardarli, quando ricevette i “Sepolcri” del Fosco, per giunta in triplice copia con tanto di autografo, che lui rileggette più e più volte mentalmente con la voce da segugio sfinito del mezzogreco, gli cominciò a balenare l’idea che la Morte, di cui lui tanto s’era irriso, fosse pronta a bussare alla sua porta. Insomma, quello che gli altri non vedevano nei suoi versi sepolcrali era la sua affermazione dell’esser vivo e in buona salute alla faccia loro e adesso questi altri sembravano chiedere il conto. Lesse i primi versi ancora una volta:

” All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?

E il Fosco per certo voleva dire che non vedevo l’ora di vederlo bello e intabarrato del suo cappotto di marmo.

Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,

Era indubbio che si aspettava di vederlo stecchito a breve, così da non sentirlo più declamare i suoi versi. Che fosse per cupidigia per Marantonia? Non se ne dava pace.

né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,

Ed era chiaro: come fa un cane a fare a meno del suo abbaio, per quanto sgraziato?

unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?

Che dici di affogarti? Sicuro questo voleva dire, pur parlando di se stesso, sapendo che Pindemonte a breve doveva partire per nave, gli augurava un assalto degli Ottomani, dei pirati greci o una cannonata dalla Flotta di una qualsiasi delle Loro Maestà sparse per il globo terracqueo.

Figlio di una cagna, perché evidentemente, se il Fosco abbaiava, cagna doveva avere per madre, quanti accidenti ancora doveva mandargli in ben trecento versi di sepolcrale e umida disgrazia?

Quel giorno Pindemonte, veronese di nascita e amante segreto di Palermo (e Palermitane), non riuscì ad andar di corpo, nonostante avesse scelto il suo albero preferito. Qualcosa, intanto, tra le ombre del parco della villa, si muoveva, si agitava, creava scompiglio.

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F per Fosco

Lo chiamavano “Fosco”. Lui per giunta lo sapeva, anche se non capiva o faceva finta di non capire il perché. Quando passava lui, la gente si toccava per evitare che succedessero disgrazie. Ugo Foscolo, per tutti Ugo Fosco.

Che poi, se proprio dobbiamo dirla tutta, neanche Ugo si chiamava. Niccolò, Ugo per scelta. Come se mi chiamassi Giangiacomo e per scelta optassi per Pierfranzualdo. Insomma, Fosco non aveva azzeccato niente. Il giovanotto, però, ci sapeva fare con le donne, sempre quelle degli altri, s’intende. Sembrava un po’ un riccioluto segugio dallo sguardo languido: come vedeva una donzella con la fede al dito, già s’ammazzava di struggimenti d’amore, che pareva uscito da un poemetto erotico del ‘500, tutto aulico e roboante. In effetti aveva anche altro in comune con un segugio: quando infatti si dava a pene d’amore più o meno corrisposte cominciava a parlare con un tono che ricordava un latrato smorzato, quasi un abbaio di una gola roca, come quei cani che in piena campagna inseguono un leprotto e sono allo stremo delle forze. Non so se fosse per questa voce ancora giovanile o per l’arzigogolato stillicidio dei suoi versi che le donne erano affascinate dal Fosco. Il problema è che lui, fedele al personaggio, non amava granché quelle che gli si buttavano ai piedi come spugne gonfie d’acqua, trasudanti umore, amore e condiscendenza, no. Lui voleva l’impossibile. E rovinava pressoché impunemente un gran numero di famiglie. La gente dice che si fregiava dell’amicizia di Vincenzo Monti. E invece no, signori. Il povero Monti aveva ormai lo stomaco marcio per tutta la bile che secerneva, vedendo come la signora Monti dava corda al giovanotto, per giunta più giovane di lei. Parliamo, a che ci siamo, anche della signora Teresa. Il Pecchio, amorevole scribacchino, per carità, ci riporta questo: «Grandi occhi neri e folta corvina chioma; una bocca di rose, un’aria di testa nobilissima; statura alta con portamento dignitoso … Se aggiungi il tono soave della sua voce, il suo armonioso accento romano, la sua virtù in suonar l’arpa, non mancherà nulla a raffigurare la tenera Malvina di Ossian».

A dirla tutta di armonioso il suo accento romano, per giunta inasprito da qualche nota tirolese del padre, non aveva proprio niente. Era una matrona dalle forme procaci, con una voce squillante come una campana, molto alta, e per questo il Fosco, spesso ingobbito dalla mole dei suoi pensieri, un giorno ci sbattè contro. Non vi dico il tripudio di gioia del nostro. Fu talmente estasiato dalla cosa che non poté camminare per due giorni, causa violenta felicità della sua, di cosa. Quando infine seppe che era pure sposata, ogni residuo di globulo rosso si trasferì sotto la cintura, cosa che lo rese piuttosto anemico per una settimana. Ripresosi dal colpo e dall’oppio che regolarmente prendeva in compagnia di quei capelloni che dicevano di voler fare l’Italia, ma che in realtà si facevano e si lasciavano fare per tutte le contee dalla Val Padana fino all’Agro Pontino, il Fosco cominciò a rimuginare sulla modalità in cui avrebbe potuto coercire la trentenne arzilla signora, lui imberbe ventenne. Così la fece a parte dei suoi più diabolicamente, mielosamente, dannatamente e tutta una serie di avverbi in -mente, che già allora i politici di tutta Italia usavano in quantità industriali – anche se per l’epoca sarebbe più giusto dire a carichi da bastimento – struggenti poemi e sonetti. Bisogna ammettere anche che se la cavava niente male, Niccolò, detto Ugo, che è come se io mi chiamassi Pietro e mi facessi chiamare Diodato. E per questo gli editori non mancavano, se teniamo conto della media di quanto poco si pubblicasse all’epoca. Solo che c’era un problema. Il Fosco, nella sua immensa foschia, quella, per intenderci, data dall’oppio, amava fare gli agguati ai poveri editori.

Qui di seguito riportiamo un inedito stralcio di “Alla sera”, prima edizione, mai data alle stampe, che fece saltare dalla sedia il titolare della stamperia Agnello Nobile:

“…questo reo tempo, e van con lui le forme

Quelle cupe onde meco egli è strutto;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rutta.”

Non vi dico la sorpresa e le bestemmie, quando, interpellato il Fosco, quello cominciò a ridere del suo abbaio segugesco. A Agnello Nobile venne un coccolone tale che anche gli ultimi capelli neri gli diventarono di colpo grigi. Da quel momento in poi è assodato che Fosco porti sventura. Figuratevi quindi quando il Pindemonte ricevette la sua dedica ai Sepolcri.

E non tutto ancora gli era chiaro…

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“Deorum Manium iura sancta sunto”

Una condanna a morte. Questo era. Gli aveva dedicato i Sepolcri come se volesse dirgli di prepararsi a crepare. Da quel momento si era chiuso in casa e buona notte.

Figlio di puttana, gli poteva solo portar sventura una cosa del genere. E infatti la sfortuna non tardò ad arrivare. Ma andiamo per gradi: era il 1807 quando quel represso sociopatico puzzone di Ugo Foscolo – e per giunta gran masturbatore – gli mandò la copia autografata dei “Sepolcri”. Sì, sonetto politico, sì, lasciate in pace i morti, vi abbuono tutto, ma dedicare i Sepolcri ad un amico, questo no. Andiamo, a chi dedichereste voi un’opera che parla di campi santi? Quella mattina, quella in cui lo ricevette, Pindemonte si guardò allo specchio imperfetto della sua sala da toeletta. Aveva una brutta cera e delle occhiaie talmente maestose da sembrare uno di quei cani, i bulldog, che aveva visto in giro per l’Inghilterra. Cristo, tutto ma non un bulldog e per giunta con una condanna a morte sul groppone.

La domestica, Marantonia, che si era portato da Palermo – bel seno aveva Marantonia – gli portò la colazione nella sua stanza: uova freschissime e latte di capra, in più un po’ del pane tostato che tanto piaceva a lui e, se Vossignoria avesse voluto, – “dopo la colazione ci faccio tastare tutto per digestivo, come piace a Vossìa” – le disse civettuola e ballonzolante del suo davanzale esagerato Marantonia. Ma Pindemonte quella mattina pensava solo che quel tossico da papavero di Ugo Foscolo gli aveva intitolato una messa da requiem. Il mondo cospirava allora contro di lui. Non è che Marantonia ora lo voleva soffocare in mezzo alla sua procacità? Tutta quell’abbondanza che di solito gli faceva cominciare la mattina di buon umore adesso sembrava solo sovrastarlo e guardarlo cattivo. A guardare quei capezzoli turgidi della giovanotta palermitana, gli veniva il mal di mare. Ballavano di qua e di là, di là e di qua e, porco Giuda, dentro la pancia si sentiva ballare l’uovo crudo che ancora neanche aveva mangiato come una nave sbatacchiata dalla più grossa tempesta che si fosse mai vista.

– “Marantò, vai vai. Tira aria brutta” – In quasi 10 anni di onorato servizi(ett)o mai s’era sentita rifiutare. E quasi alla donna venne paura. Lo guardò bene: – “Si sente bene, Eccellenza?” – con quello sproposito ancora in bella vista, si chinò di nuovo su di lui a toccargli la testa. Quello guardava e si sentiva ancora più male. Sudava freddo che nemmeno quando aveva letto il primo componimento di Monti, no, a confronto quello era un piacere a sentirsi. Quei due occhioni di color rosa, due bottoni ancora induriti dal giochino di tutte le mattine, lo fissavano bovini e lui fissava loro con sguardo impaurito. Si fece il segno della croce e cominciò un Pater Noster in latino, con quell’accento veronese che ormai gli veniva solo quando rimuginava, dato che passava le sue giornate immerso in una sorta di Ballarò nella Val Padana. Infatti dalla Conca d’Oro s’era portato quattro aiutanti, tutti a buon prezzo e scelti a suo capriccio. Brave persone, sì sì, mica facce da forca, però oggi non sarebbe uscito dalla sua stanza nemmeno per tutto l’oro del mondo. Tirò una bestemmia così forte che il crocifisso immerso nelle beate rotondità della domestica ebbe un sussulto, prima di rimmergersi nella sacrosanta consolazione della carne, lui crocifisso di legno, fatto ancora più duro dalla calda presenza della figliuola.

– “Marantò, non è giornata” –

– “Che fu, Eccellenza?” – mentre rimetteva a posto la camicia e ancora una parte di Pindemonte pensava “Minchia, ma che sto facendo?”.

– “Niente, brutte nuove. Per adesso non ho fame. Mangia tu. Hai mangiato? Se ho bisogno, ti chiamo. Devo riflettere” –

– “Come Eccellenza desidera. Ma è sicuro, Eccellenza che manco un bacio ci vuole dare a tutto sto beni di Ddio?” – disse Marantonia con l’ultimo afflato di civetteria.

Pindemonte ci pensò un po’ su: – “E va bene, pota. Diamoci sto bacio” –

Continua….