– “Ecco un canto per l’occasione!” –
Quando le prime volte gli astanti non ancora edotti sentivano queste parole, si giravano estasiati, aspettando versetti delicati e torniti, frutto di mente fine e di intelletto avvezzo alla bellezza. Successivamente l’esperienza suggeriva che si trattasse di Vincenzo Monti.
Il Monti era prolifico come pochi. Aveva scritto per il Papa e per i Francesi, per i borghesi e per i nobili, per i familiari e per gli sconosciuti, per gli amici e per i nemici, per i reazionari e per i giacobini, per Napoleone e contro Basseville, per Dio e per Mammona, per Cesare e per Bruto, per Ottaviano e per Marc’Antonio, per il potere temporale e per quello spirituale, per il neoclassicismo e per il romanticismo, insomma, aveva scritto per così tante persone che, alla fine, tutti quanti l’avevano per un motivo o per un altro con lui. Vincenzo Monti, in un certo senso, stimolava fastidio più di un prurito anale, cosa che, tra l’altro, viste le scarse condizioni igieniche in genere di quei tempi, era piuttosto frequente, proprio come i componimenti del caro Monti.
Ciò che fino ai quaranta aveva salvato il nostro era il bell’aspetto di cui, nonostante tutto, cercava sempre di schermirsi. A parte questo, fu proprio il suo bell’aspetto a concedergli l’alloro migliore del suo palmares: Teresa Pikler, o Pickler, o Pichler, insomma, lei. Teresa, mezza romana e mezza tirolese, un accentaccio che ti raccomando, voce squillante e risata ancora più forte, alta, procace, assetata di soldi e di potere, aveva trovato nel marito la perfetta anima gemella: lui, infatti, non era per nulla da meno.
Quando si presentò accompagnato da figlia e consorte a villa Pindemonte per una giornata in campagna a casa del caro amico Ippolito, Monti era Istoriografo del Regno d’Italia, nominato direttamente da Napoleone Re d’Italia, Dittatore di Francia, Imperatore supremo della Galassia, Capocondominio di tutti i condomini compreso il vostro. Per questa ragione il caro vecchio Vincenzo, Romagnolo di nascita, Romano per convenienza, Milanese perché nella vita sarebbe bisognava esserlo almeno una volta, era stato ricoperto d’oro: 6000 zecchini l’anno, più premi di vario tipo e servitù a carico del neonato napoleonico regno. A villa Pindemonte quindi arrivarono due carrozze: una per l’intellettuale, la moglie e la figlia adolescente, l’altra per lo spropositato ego della coppia. Dentro e sopra di esso stavano sette portantini senegalesi, quattro cocchieri italiani, un maestro di cerimonia savoiardo, tre governanti bavaresi, due pittori minori spagnoli, quattro guardie del corpo tunisine, un violinista arabo, un flautista ungherese, un tamburino tedesco e due gitani tuttofare che mettevano le pastoie ai cavalli, suonavano la tromba e il trombone, sapevano cucinare un magnifico gulatsch e, soprattutto, tenevano d’occhio i consorti, spiando anche, con la scusa, madre e figlia durante la toelettatura.
Sceso dalla carozza: – “Ippolito, carissimo Ippolito” –
– “Maestro Vincenzo, carissimo Maestro Vincenzo” – si fecero affettatissime riverenze.
– “Ti ricordi della mia amatissima Teresa?” – e come dimenticarselo, del resto, dato che la signora Pichler Monti era sempre alla ribalta per via dei suoi eccessi?
– “Certamente, caro Maestro. Donna Teresa, è un piacere riceverla nella mia umile dimora” –
– “Umile? Ammaz.. Volevo dire, se tutti fossimo così umili, caro maestro Pindemonte, questo mondo sarebbe ammantato di indicibile bellezza!” – Teresa Pichler Monti veniva da famiglia tutt’altro che di basso rango, ma, da quando era sposata con Monti, aveva talvolta dovuto patire periodi di ristrettezze economiche, momenti in cui puntualmente la signora Monti pativa problemi di salute che non gli consentivano di seguire il marito, salvo per l’esilio a Parigi, s’intende.
Finalmente espletati i lunghi convenevoli, conclusi con il regalo di una collezione di porcellane di Limoges per il té e la cioccolata – Pindemonte odiava la porcellana, che gli ricordava il detestato pitale – i signori entrarono dentro, scortati dal seguito di servitù delle due parti, con i fratelli di Marantonia a sorridere inebetiti alle bionde e pettorute governanti bavaresi dalle trecce bionde alla maniera tradizionale e lunghi vestiti di lino tinto azzurro cielo. Il pranzo fu epico e il Monti, noto per grugnire di tanto in tanto alla vista di cibi a lui particolarmente graditi, sembrava decisamente grufolare allegro all’arte culinaria di Marantonia, abile cuciniera di agnelli speziati. Per questo era bene da aspettarsi un suo componimento per l’occasione. E già Pindemonte pregustava un curioso divertissement letterario che un amico, in preda ai fumi di un liquore slovacco, gli aveva mostrato divertito.
Ippolito fece segno a Marantonia di avvicinarsi: – “Resta qui, Marantò. Ti faccio vedere come adesso li fo’ morir tutti i personaggi di Monti” – non capendo, lei si sedette appena dietro in attesa.
Monti, allora, con voce stentorea e pancia piena annunciò: – “Volevo declamare un componimento per l’occasione. Riproporrò per questo un’ode a me cara, quella al Signor de Montgolfier.” – si schiarì la voce, in attesa di risposta.
– “Prego, caro maestro, prego!” –
– “Quando Giason dal Pelio
Spinse nel mar gli abeti,
E primo corse a fendere
Co’ remi il seno a Teti;” –
– “E morì di puzzo ai piedi” –
– “Su l’alta poppa intrepido
Col fior del sangue acheo
Vide la Grecia ascendere
Il giovinetto Orfeo.” –
– “E morì come un babbeo” –
– “Stendea le dita eburnee
Sulla materna lira;
E al tracio suon chetavasi
De’ venti il fischio e l’ira.” –
– “E morì sopra una pira” –
“Meravigliando accorsero
Di Doride le figlie,
Nettuno ai verdi alipedi
Lasciò cader le briglie.” –
– “E morì di cocciniglie” –
– “Cantava il Vate odrisio
D’Argo la gloria intanto,
E dolce errar sentivasi
Sull’alme greche il canto.” –
– “E morì di cuore affranto” –
– “O della Senna, ascoltami,
Novello Tifi invitto:
Vinse i portenti argolici
L’aereo tuo tragitto.” –
– “E moristi in olio fritto” –
– “Tentar del mare i vortici
Forse è sì gran pensiero,
Come occupar de’ fulmini
L’inviolato impero?” –
– “E morir poi sotto un pero” –
– “Deh! perché al nostro secolo
Non diè propizio il Fato
D’un altro Orfeo la cetera,
Se Montgolfier n’ha dato?” –
– “E morì col seder violato” –
– “Maggior del prode Esonide
Surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
Al volator naviglio.” –
– “E muori come coniglio” –
– “Non mai Natura, all’ordine
Delle sue leggi intesa,
Dalla potenza chimica
Soffrì più bella offesa.” –
– “E morì di chiappa lesa” –
– “Mirabil arte, ond’alzasi
Di Sthallio e Black la fama,
Pèra lo stolto cinico
Che frenesia ti chiama!” –
– “E muori a fil di lama” –
– “De’ corpi entro le viscere
Tu l’acre sguardo avventi,
E invan celarsi tentano
Gl’indocili elementi.” –
– “E muor di mal di denti” –
– “Dalle tenaci tenebre
La verità traesti,
E delle rauche ipotesi
Tregua al furor ponesti.” –
– “E moristi come Alcesti” –
– “Brillò Sofia più fulgida
Del tuo splendor vestita,
E le sorgenti apparvero,
Onde il creato ha vita.” –
– “E morirono per spada scita” –
– “L’igneo terribil aere,
Che dentro il suol profondo
Pasce i tremuoti, e i cardini
Fa vacillar del mondo,
Reso innocente or vedilo
Da’ marzii corpi uscire,
E già domato ed utile
Al domator servire.” –
– “E morì con bel nitrire” –
– “Per lui del pondo immemore,
Mirabil cosa! in alto
Va la materia, e insolito
Porta alle nubi assalto.” –
– “E morì facendo un salto” –
– “Il gran prodigio immobili
I riguardanti lassa,
E di terrore un palpito
In ogni cor trapassa.” –
– “E morì come oca grassa” –
– “Tace la terra, e suonano
Del ciel le vie deserte:
Stan mille volti pallidi,
E mille bocche aperte.” .-
– “E moriron le terga offerte” –
– “Sorge il diletto e l’estasi
In mezzo allo spavento,
E i piè mal fermi agognano
Ir dietro al guardo attento.” –
– “E moriron infin di stento” –
– “Pace e silenzio, o turbini:
Deh! non vi prenda sdegno
Se umane salme varcano
Delle tempeste il regno.” –
– “E muoion a colpi di legno” –
– “Rattien la neve, o Borea,
Che giù dal crin ti cola;
L’etra sereno e libero
Cedi a Robert che vola.” –
– “E morì sotto una mola” –
– “Non egli vien d’Orizia
A insidiar le voglie:
Costa rimorsi e lagrime
Tentar d’un Dio la moglie.” –
– “E morì di troppe doglie” – (qui ripensando al Fosco)
– “Mise Teséo nei talami
Dell’atro Dite il piede:
Punillo il Fato, e in Erebo
Fra ceppi eterni or siede.” –
– “E morì come Diomede” –
– “Ma già di Francia il Dedalo
Nel mar dell’aure è lunge:
Lieve lo porta Zeffiro,
El’occhio appena il giunge.” –
– “E morì ché l’ape punge” –
– “Fosco di là profondasi (Dannato Fosco, ovunque sei!)
Il suol fuggente ai lumi,
E come larve appaiono
Città, foreste e fiumi.” –
– “E morì, vollero i Numi” –
– “Certo la vista orribile
L’alme agghiacciar dovria;
Ma di Robert nell’anima
Chiusa è al terror la via.” –
– “E morì di dissenteria” –
– “E già l’audace esempio
I più ritrosi acquista;
Già cento globi ascendono
Del cielo alla conquista.” –
– “E morì di Monti alla vista” –
“Umano ardir, pacifica
Filosofia sicura,
Qual forza mai, qual limite
Il tuo poter misura?” –
– “E morì per la calura” –
– “Rapisti al ciel le folgori,
Che debellate innante
Con tronche ali ti caddero,
E ti lambîr le piante.” –
– “E morì per man di fante” –
– “Frenò guidato il calcolo
Dal tuo pensiero ardito
Degli astri il moto e l’orbite,
L’olimpo e l’infinito.” –
– “E morì di callo al dito” –
– “Svelaro il volto incognito
Le più rimote stelle,
Ed appressâr le timide
Lor vergini fiammelle.” –
– “E moriron come animelle” –
– “Del Sole i rai dividere,
Pesar quest’aria òsasti;
La terra, il foco, il pelago,
Le fere e l’uom domasti.” –
– “E moristi dopo i pasti” –
– “Oggi a calcar le nuvole
Giunse la tua virtute,
E di natura stettero
Le leggi inerti e mute.” –
– “E moristi in manier brute” –
– “Che più ti resta? Infrangere
Anche alla morte il tèlo,
E della vita il nèttare
Libar con Giove in cielo.” –
– “E morir senza più un pelo” –
Marantonia si alzò dopo un composto applauso, dopo si avviò verso le cucine dove si udì un fragoroso scoppio di risa, che nessuno, salvo Pindemonte seppe spiegarsi.
– “Bizzarra la vostra serva, caro Ippolito” –
– “Meno di quello che pensate, Maestro, e poi è brava in tutti i servizi di casa” – automaticamente non pensò ai manicaretti e alla casa linda, ma alla sua carne, in cui ogni giorno affondava gustosamente.
– “E non è men che meno la sola a sembrar bizzarra” – aggiunse Donna Teresa.
– “A che vi riferite, Madama?” –
– “A quei vostri giovani negretti di bassa statura che vi curano il giardino in numero di sette” – Pindemonte non sapeva di cosa parlasse.
– “Prego?” –
– “Si, all’arrivo li abbiamo visti scaricare delle casse verso un certo luogo e ci sembraron spaventati alla nostra vista, tanto da nascondersi, ma non saprei più altro aggiungere” –
A Pindemonte raggelò il sangue, ma cercò di mantenere compostezza. Più tardi avrebbe chiamato Vincenzo, ordinandogli di ripulire al più presto gli schioppi.
– “Ma prego, non tediamoci oltre. C’è uno splendido sorbetto con neve delle Alpi che ci aspetta di là!” – Ippolito era scuro in volto. Qualcosa si stava abbattendo sulla villa e adesso capiva il perché della sua perdurante stitichezza.
Continua…